Jean Noyoma Kovounsouna: «Mi hanno legato mani e piedi con la tecnica dell’arbatashar, e poi mi hanno fatto ingurgitare dell’acqua».

Jean Noyoma Kovounsouna: «Mi hanno legato mani e piedi con la tecnica dell’arbatashar, e poi mi hanno fatto ingurgitare dell’acqua».

Quarta puntata con i protagonisti del caso Hissene Habré con un’altra vittima di tortura nelle prigioni del dittatore ciadiano.

Oggi, la parola della rubrica “Personaggi d’Africa” va a Jean Noyoma Kovounsouna.

Lavorava come tecnico sanitario prima dell’arresto. Oggi risiede a N’Djamena. Con gli altri membri dell’associazione delle vittime, aveva sporto denuncia a Dakar contro Hissene Habré nel 2000. Ha testimoniato davanti alle Camere Africane Straordinarie a Dakar nel mese di ottobre.

 

Jean Noyoma KovounsounaÈ in occasione della mia missione a Ndjamena l’11 maggio 1989 che Mahamat Djibrine El Djonto è venuto ad arrestarmi nell’ufficio del mio direttore di servizio, in orario lavorativo. Diceva che avevo avuto contatti con l’ambasciata della Libia in Ciad. Mi ha detto di andare con lui e di portare con me tutti i documenti (…). Siamo andati alla Dds, ed è lì che mi hanno rinchiuso in una piccolo cella, apparentemente una doccia abbandonata, di 1,50 m per due, dove c’erano già due persone. Non c’era modo per evacuare l’acqua: gli escrementi si erano putrefatti e erano apparsi i vermi. Stavamo in piedi per paura che ci entrassero negli orifizi. Il giorno dopo Mahamat Djibril El Djonto mi ha prelevato e torturato, legandomi mani e piedi nella posizione della tecnica dell’arbatashar per poi farmi ingurgitare dell’acqua.
 (…) Il terzo giorno mi hanno portato al Bcir [Brigata Criminale di Intervento Rapido]. Lì c’era una cella di 2 metri per 3, dove c’erano già delle persone, e ne portavano mano a mano altre. (…) Ho fatto due settimane lì, durante le quali ho visto che portavano delle persone con il sangue sul corpo e le sbattevano in cella. Poi mi hanno portato al carcere “Campo di martiri”, dove cambiavo spesso cella. (…) Potevamo arrivare a stare in 6 in una cella di 1,50 m per 2. Quando volevamo dormire, dovevamo metterci 3 su un lato, 3 sull’altro: le gambe erano piegate al collo, non potevamo stenderci, eravamo come sardine in una lattina. Se uno di noi voleva girarsi, tutti dovevamo svegliarci per cambiare posizione. (…)
Ci aprivano le porte due volte al giorno, per far evacuare i nostri bisogni al mattino (…) e verso le 14 per darci da mangiare: un po’ di riso nero e delle polpette, la salsa era senza condimento. (…)
C’erano molte malattie, come la dissenteria. Le persone perdevano denti come bambini. A causa delle torture e della cattiva alimentazione, tanti si ammalavano. I recipienti del cibo non erano mai lavati con il sapone, noi avevamo un unico vestito, c’erano pulci dappertutto. (…) E non parliamo del caldo che faceva.
Quando qualcuno era agonizzante lo mettevano solo in una cella, oppure in corridoio; noi non vedevamo niente, ma quando sentivamo smettere i gemiti capivamo (…)
Quando mi hanno rimesso in libertà, ci sono voluti 4 anni di cure per avere un figlio. Ero diventato impotente, non ero più un uomo.
Le fosse comuni che la Commissione di Inchiesta ha scoperto nel paese e che le differenti commissioni delle Camere hanno confermato – per poi scoprirne anche altre – e noi testimoni degli eventi…: di fronte a tutte queste prove, credo a mio umile parere che Hissene Habré non abbia argomenti per difendersi, per questo forse tace! Anche se parlasse cosa potrebbe dire? Quale paese africano sotterra le persone in condizioni e posizioni disumane? Tutte le tradizioni africane rispettano i propri morti; i corpi sono trattati con molto riguardo, e le posizioni con cui i cadaveri vengono seppelliti differisce da cultura a cultura, ma in Ciad non esiste una cultura che autorizzi a sotterrare le persone a dozzine dentro a dei sacchi! E questo lui ha fatto, è stato mostrato e filmato.
C’è stato un processo a Ndjamena dove tanti collaboratori di Habrè sono stati condannati… il mio torturatore per esempio è stato condannato all’ergastolo. All’inizio c’erano minacce da parte delle famiglie di questi accusati, che erano generali dell’esercito, commissari di polizia e persone che occupano ruoli di alto rango: molte vittime avevano paura di venire a testimoniare, solo 53 lo hanno fatto (…). È ora che anche le persone in Ciad iniziano a rassicurarsi e a credere alla realtà, soprattutto quando è iniziato il processo qui a Dakar. Il processo a Ndjamena era stato veloce, era durato un mese, e non era mediatizzato come questo: aveva avuto poco eco tra chi abita nelle province più isolate. Ora, grazie alle condanne a Ndjamena e al processo in Senegal, le vittime hanno preso coraggio e iniziano a credere alla Giustizia.
Quando le Cae hanno aperto nel 2013 è stata la prima vittoria per noi vittime; la seconda è arrivata il 20 luglio, quando è cominciato il processo. Per me, la terza vittoria è stata quando ho potuto testimoniare, e tutto il mondo ha sentito quanto abbiamo sofferto. Abbiamo speranza che giustizia ci sarà resa e che Hissene Habrè risponderà dei suoi atti.
Anche se dovessi morire oggi ho lo spirito in pace, i miei figli e i miei nipoti sanno ora quello che ho passato”.

Per ascoltare parti della testimonianza originale, guarda il video:

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