Cosa dice l’Africa di Donald Trump e Trump dell’Africa?
L’elezione di Donald Trump come 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America ha scosso tutto il mondo. Ma com’è stata recepita la notizia dagli africani? Il cambiamento di dirigenza del continente più potente del mondo avrà delle conseguenze in Africa?
Sicuramente, soprattutto dopo la presidenza di Barack Obama, la successione in Usa di un uomo dalle idee e dai modi come quelli di Donald Trump è una doccia fredda, difficile da digerire. Cha fa rabbia e paura. Assistere alla vittoria della politica dell’esclusione – razzista e sessista -, dell’interesse, del più forte e di chi grida più (e anche in modo volgare), provoca certo amarezza e tristezza, in qualsiasi parte del mondo; ma ancor più, fino a diventare preoccupazione, se tale politica trionfa in quella parte del globo che, bisogna riconoscerlo, influenza in modo diretto o indiretto il resto del pianeta.
E così, gli americani hanno scelto una dirigenza che risveglia o legittima le tendenze già insite in tutte le società, per paura o ignoranza, dell’odio razziale e dell’intolleranza verso il diverso. Fa ancor più male pensare che un uomo che insulta i neri diventi presidente proprio degli Usa del 2016, un continente che ha realizzato un percorso di battaglie per l’emancipazione e i diritti dei neri durato non anni o qualche decennio, ma un secolo e mezzo. Fino ad assistere, 8 anni fa, all’elezione del primo presidente nero.
Subito dopo la notizia dell’elezione di Trump, gli africani a parlare più di tutti sono stati, ovviamente, quelli che vivono e lavorano sul suolo americano. Se si leggono le loro reazioni sul sito della rivista africana Jeuneafrique, ci si accorge che a dominare non sono neanche tanto stati d’animo di delusione o rabbia, ma più che altro di paura: quella fisica di essere aggrediti da sconosciuti xenofobi (come dargli torto, visto che persino il Ku Klux Klan ha appoggiato il neo-presidente in campagna elettorale e intende già organizzare “una parata della vittoria”), di perdere da un giorno all’altro la cittadinanza o di mai poterla acquisire.
Tra la comunità senegalese a New York, è Ibrahima Sow, il presidente dell’Associazione dei senegalesi d’America (Asd), a gridare la sua inquietudine sulla stampa senegalese (L’Obs del 10 novembre, che apre in prima pagina: “La paura blu dei senegalesi d’America”). E lo fa ricordando l’unico episodio di incontro, non certo piacevole, tra Trump e la comunità senegalese una decina di anni fa a New York. All’epoca, racconta Sow, Trump era il presidente dell’associazione di commercianti di tutti i negozi di prodotti di lusso. I venditori ambulanti senegalesi minacciavano il loro business, e Trump si è ferocemente opposto alla loro attività. Avrebbe “malmenato” qualche senegalese e pronunciato dichiarazioni razziste del tipo: «Questi senegalesi e africani sono così neri che non si doveva loro permettere di installarsi in queste zone». Dalle parole ai fatti, o almeno al tentativo. Sow afferma, infatti, che Trump si fosse persino impegnato a organizzare un fondo per l’espulsione di tutti i senegalesi sorpresi a vendere in strada, e pare che fosse pronto a finanziare l’iniziativa con propri fondi. Alla fine, nessuno è stato espulso, perchè ovviamente Trump non aveva il potere di farlo.
A incuriosirmi è stata l’altra testimonianza riportata sull’edizione dello stesso giorno dal quotidiano senegalese Le Soleil: quella di un’italiana sposata con un senegalo-americano con cui ha avuto due figli, che afferma, delusa e preoccupata, di essere fuggita dall’Italia di Berlusconi e della sua equipe di estrema destra per portare il suo contributo alla costruzione della società multicolore e ugualitaria statunitense.
L’America ha perso il treno della Storia? Questa è la domanda che si pone, nello stesso quotidiano, il giornalista Daouda Mane, rammaricandosi che al popolo americano sia sfuggita l’occasione finalmente di eleggere la prima donna alla Casa Bianca (e di aver scelto un individuo che insulta il gentil sesso). Uno dei tanti paradossi americani, di un continente che ha tanto lavorato per la promozione della donna nel mondo e per la loro ascesa politica, come quella di Ellen Johnson Sirleaf in Liberia o Aung San Suu Kyi in Birmania. Un peccato, perchè si pensa che, almeno in principio, una donna non possa essere che benefica alla società, interessandosi di questioni quali la sanità, l’educazione e la promozione dei diritti delle donne, soprattutto delle più giovani. Il fatto che una donna fosse eletta per la prima volta negli Usa, continente considerato mondialmente esempio di democrazia, avrebbe veramente fatto la promozione della donna in tutto il mondo. Il che avrebbe voluto dire rendere omaggio a più della metà dell’umanità.
Passando dai cittadini comuni ai leader africani, si resta ancor più interdetti. A fargli le congratulazioni di protocollo sono stati, tra gli altri, i capi di Stato del Senegal, Camerun, Kenya, Ruanda, Egitto, mentre coloro che si sono felicitati in modo più caloroso sono stati il presidente della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), Joseph Kabila, e quello del Burundi, Pierre Nkurunziza: paesi che, dall’estate scorsa, subiscono sanzioni Usa (che colpiscono alcuni alti gradi dell’esercito colpevoli di atteggiamenti repressivi verso la popolazione), e i cui governanti sperano, secondo Radio France International (Rfi), di ingraziarsi Trump fin da subito Trump.
Ma, parte le opinioni e le reazioni degli africani, la dirigenza Trump cambierà l’attuale politica estera americana in Africa?
Dal punto di vista economico, la politica protezionista del neo-eletto presidente porta per esempio a chiedersi cosa ne sarà dell’Agoa (African Grouth and opportunity Act), un accordo di libero scambio firmato nel maggio 2000 che facilita l’ingresso nel mercato americano di merci africane. Mentre infatti Trump è stato più esplicito sulle sue intenzioni con altri trattati internazionali, niente è stato detto a proposito dell’Agoa.
Restando sull’economia, è sempre Rfi a chiedersi se l’Africa diventerà un terreno di lotta per gli Usa di concorrenza con la Cina, o se ancora, coerentemente al principio isolazionista “l’America prima di tutto”, Trump metterà mano agli aiuti economici destinati al continente africano.
La stessa incertezza domina nell’ambito della cooperazione militare. Gli Stati Uniti sono attualmente presenti ufficialmente con una sola base militare a Djibouti, in Africa orientale, mentre in molti paesi dell’Africa occidentale è presente, sotto forma di contingenti di consiglieri o di militari nelle ambasciate, una rappresentanza dell’Africom, il comandamento americano per l’Africa (che esiste in 45 paesi del continente). La presenza americana si era rinforzata, ultimamente, soprattutto in Camerun, con l’invio di truppe per sostenere la lotta contro Boko Haram nella vicina Nigeria e in Niger, dove sembra si stia costruendo una base aerea per droni.
La politica di Trump sul continente africano è, per ora, assolutamente impossibile da prevedere; tanto più che l’Africa, come rilevato dai media, è stata la grande assente della sua campagna elettorale.
Intanto, per salutare il presidente uscente Barack Obama, riproponiamo l’articolo sulla sua visita in Senegal: