Caso Mbayang Diop/4. Confermata la condanna a morte per la domestica senegalese in Arabia Saudita. E i sauditi siedono alla Commissione Onu per le donne.

Caso Mbayang Diop/4. Confermata la condanna a morte per la domestica senegalese in Arabia Saudita. E i sauditi siedono alla Commissione Onu per le donne.

È giunto il verdetto della condanna a morte definitiva per Mbayang Diop, la giovane lavoratrice domestica senegalese accusata di omicidio e in carcere da quasi un anno in Arabia Saudita. E intanto, i diplomatici sauditi sono eletti nella Commissione Onu per la condizione delle donne.

Alla fine della settimana scorsa, due notizie, riguardanti entrambe l’Arabia Saudita, mi hanno seriamente incupito.

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Mobilitazione della società civile in favore di Mbayang, Dakar, agosto 2016.

La prima, è inerente al triste evolversi del caso della 22enne Mbayang Diop, la lavoratrice domestica senegalese che, accusata di aver ucciso la sua datrice di lavoro in Arabia Saudita, è finita in carcere nel luglio 2016. Africalive aveva dato la notizia e seguito la piccola mobilitazione che ne era nata, prendendola anche come pretesto per parlare uno po’ di cose brutte come la schiavitù moderna e l’incubo silenzioso e invisibile vissuto dalle lavoratrici domestiche senegalesi (come altre colleghe africane e asiatiche), in particolare proprio in Arabia Saudita e in altre monarchie del Golfo.
(Vai alla diretta su Afriradio e ai link a fine articolo).
Per rigor di cronaca, riporto ora l’aggiornamento del 27 aprile: la condanna a morte di Mbayang  è stata confermata dalle autorità saudite. Sull’affare, governo e media senegalesi avevano osservato il silenzio fino a qualche giorno fa, quando si è saputo che a nulla sono valsi i tentativi di mediazione della diplomazia senegalese con il re saudita Samane ben Abdelaziz Al Saoud, e i 40 milioni (60.000 euro, secondo Seneweb), sborsati dal presidente Macky Sall per assicurare a Mbayang un avvocato della Difesa.

Ora, Mbayang ha solo due chances di salvarsi.
Innanzitutto, la condanna a morte non sarà immediatamente messa in pratica per la possibilità che la legge saudita lascia al condannato di essere perdonato dai membri della famiglia della vittima. In questo caso, Mbayang dovrebbe aspettare tuttavia ben 9 anni affinché il figlio più grande della donna deceduta possa avere l’età giusta (15 anni) per dare il suo responso.
La seconda possibilità, più verosimile e meno lontana nel tempo, è che la famiglia della vittima saudita accetti di negoziare con il presidente senegalese ilprezzo del sangue“.  La stampa senegalese ha infatti reso noto il 28 aprile che Macky Sall sarebbe ora disposto a sostituirsi per questa operazione alla famiglia di Mbayang: in Arabia Saudita, un condannato a morte può infatti riscattarsi versando una somma alla famiglia della vittima, decisa in base alla legge e ad alcuni parametri. Tra questi, scrive Seneweb, il “sesso della vittima”.

E qui, giungiamo alla seconda triste e indignante notizia.

La premessa, che più o meno tutti conosciamo, è che se gli stranieri (ancor più se africani e più ancora se donne, come Mbayang), se la passano maluccio in termini di diritti umani nella monarchia di Salman Saoud, una politica di discriminazione e negazione dei diritti è subita anche dalle donne saudite.
Al giorno d’oggi, queste non possono ancora guidare; inoltre, non posso fare nulla (studiare, lavorare, sposarsi, viaggiare) senza l’autorizzazione o la presenza di un uomo, loro “tutore”.
Ebbene, durante gli stessi giorni in cui Mbayang è stata condannata, l’Arabia Saudita ha fatto parlare di sé nei media italiani e di tutto il mondo a causa della sua nomina, insieme ad altri dodici paesi e fino al 2018, nella Commissione sulla condizione delle donne dell’Onu, istituzione finalizzata alla promozione dell’uguaglianza di genere e all’autonomizzazione della donna. L’inverosimile decisione è stata denunciata in primis da UN Watch, l’Ong basata a Ginevra e incaricata di monitorare che l’Onu rispetti il proprio Statuto nelle sue iniziative. Dopo aver definito l’Arabia Saudita come «il più misogino governo del mondo», le prime parole a cui l’organizzazione ha lasciato spazio nel suo sito sono quelle del suo direttore Hillel Neue, riprese dai media internazionali: «Eleggere l’Arabia Saudita per proteggere i diritti delle donne è come mettere un piromane a capo dei pompieri della città».
Inoltre, come sottolinea il sito occhidellaguerra.it, pare che la procedura di elezione utilizzata sia stata piuttosto «strana»: è stato richiesto infatti dagli Stati Uniti in modo insolito un voto segreto, e almeno cinque paesi europei avrebbero votato a favore di Ryad, anche se non vengono esplicitati quali…

Tutte le potenze del mondo sono pronte a chiudere gli occhi sulla natura oscurantista dell’Arabia Saudita, e a tenersela amica chi per ragioni economiche, chi militari, chi strategiche…è la legge ingiusta e universale del più forte (e del più ricco), la regola del gioco nello scacchiere ipocrita della geopolitica internazionale.
A finire nelle maglie della Giustizia, da sempre, non sono certo i regimi forti e colpevoli, nemici numero Uno della libertà e dei diritti umani, ma le ultime ruote del carro, che lottano per denunciare questo sistema o per portarsi a casa la pagnotta. Ma quanto fatto dall’Onu rispetto all’Arabia Saudita non mi pare solo paradossale e ridicolo: reputo pericoloso e disarmante il modo in cui ci si prende così spudoratamente gioco dei cittadini. La notizia mi ha offeso non solo in qualità di donna e in quanto essere umano che ha a cuore diritti umani e libertà; mi sono sentita infatti, per un’ennesima volta (ma in questo caso in modo troppo palese), mancata di rispetto e presa in giro dai poteri alti, che pensano di poter agire sempre indisturbati.

Detto questo, mi viene anche da pensare: quante possibilità avrà ora Mbayang Diop di salvarsi?
Si potrebbe forse suggerirle, a questo punto, di fare appello alla benevolenza della Commissione Onu sulla condizione della donna. «No Joke», ha titolato il suo video UN Watch nel dare la notizia: purtroppo no, «Non è uno scherzo».

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